Per raccontare il declino psicofisico di un anziano Sherlock Holmes in Soluzione finale, Michael Chabon scrisse che “nella graduale conquista della sua mente, l’età non si limitava a smussare o a rallentare, ma cancellava, allo stesso modo in cui millenni di sabbia del deserto portata dal vento cancellano una città”. Ebbene, la medesima sabbia sembra corrodere gli ingranaggi dell’intelletto di Emilio, eroe tragico di un’epopea tutta interiore: Arrugas, produzione spagnola del 2011 che ha fatto incetta di premi in tutta Europa, basata sull’omonima graphic novel di Paco Roca, è una riflessione lucida e delicata sulle zone d’ombra della senilità, troppo spesso liquidata dalla morale corrente come epoca di saggezza e pace sensoriale, di serenità e dolci memorie. Una retorica che il povero Emilio non può certo condividere: relegato in una casa di cura dopo aver mostrato i primi segni del morbo di Alzheimer (come si evince dalla folgorante sequenza iniziale), l’uomo deve piegarsi alla grigia apatia di un microcosmo che confina l’esistenza dei suoi abitanti alle mere funzioni elementari. «Qui si può solo dormire, mangiare e cagare» dice il compagno di stanza di Emilio, Miguel, vecchia canaglia che con sarcasmo e autocoscienza sfiora i tratti di un raisonneur pirandelliano.

Gli altri personaggi, di contro, sono irrimediabilmente alienati da loro stessi: aggrappati ai frammenti delle proprie vite passate come naufraghi in una tempesta, restano chiusi in un guscio di ossessioni disturbanti (la donna che teme di essere rapita dagli alieni) o allucinazioni salvifiche (la signora convinta di viaggiare sull’Orient Express per raggiungere il marito a Istanbul), e le loro vite non sono nulla più che un rumore di fondo per i rispettivi parenti, che si recano a visitarli solo a Natale per adempiere a un obbligo dettato dalle convenzioni sociali.

Se i tentativi di fuga servono soltanto a dimostrare la gravità della malattia, la soluzione del dramma è rintracciabile in quell’Amore che, come nell’omonimo film di Haneke, rappresenta l’unica possibilità di riscatto per un’umanità ormai ridotta ai minimi termini, senza tuttavia scivolare in intenti consolatori; anzi, l’unico spiraglio di libertà risiede proprio nell’accettazione totale, definitiva, di quelle ossessioni alienanti che tormentano gli ospiti della casa di cura. Colpevolizzati in quanto “scorie sociali”, privi di un ruolo attivo e produttivo nella comunità, gli anziani protagonisti, con i loro volti segnati dal tempo (Arrugas significa “rughe”), si fanno da parte con dignità e discrezione, vittime di un sistema crudele che tende a rimuovere il proprio passato.

Il disegno semplice e le animazioni essenziali, a tratti persino grezze, valorizzano il cuore pulsante della vicenda, focalizzando l’attenzione sul mondo interiore dei personaggi e sulla qualità della personality animation, fondamentale per rendere tangibile tutta la gamma di sfumature emozionali che si increspano sul viso dei protagonisti. L’alternanza fra memoria, fantasia e realtà contribuisce a solidificare le basi emotive del film (con risultati talvolta struggenti, come nell’episodio del bimbo che regala una nuvola alla sua amata), e rafforza al contempo la percezione di trovarsi davanti a uomini e donne reali, che hanno vissuto, amato e perso: in tal senso, l’animazione dimostra ancora una volta, come già nei recenti Up, Mary and Max e L’illusionista, di saper raccontare la poesia della solitudine con grazia e arguzia fenomenali, sfiorando le corde di una verità che ognuno può sentire come intimamente, profondamente propria.

È un bene che Arrugas abbia finalmente trovato una distribuzione italiana, seppur sporadica e limitata ad alcune città. Il giovane regista Ignacio Ferreras ha forgiato un gioiellino di maturità e tenerezza, sincero e mai ricattatorio: l’animazione come specchio del reale, che parla un linguaggio comprensibile da chiunque.



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